Cass., IV sez. pen. (sent. 8 novembre 2017, n. 50975): la mancata diagnosi tempestiva di una malattia che risulta grave e ad esito infausto non può escludere la responsabilità medica
La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza che assolveva un medico dall’imputazione di cui all’art. 589 c.p. a fronte di un ritardo nella diagnosi di un tumore pancreatico: la presenza di una patologia ad esito infausto non può escludere il rapporto causale tra condotta omissiva ed evento morte.
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Un medico era stato assolto perché il fatto non sussiste dalla del reato p. e p. dall’art. 589 c.p. poiché per colpa consistita in negligenza e violazione delle leges artis, cagionava la morte della sua paziente (omissis) la quale aveva richiesto la sua prestazione professionale per la cura di una patologia che si manifestava tramite astenia, forti dolori addominali e calo ponderale, e che poi si sarebbe rivelata per “adenocarcinoma mucocosecernente ad origine pancreatica”; in particolare, a fronte di un quadro sintomatico lamentato dalla paziente e dopo la sottoposizione della stessa ad esami clinici da lui prescritti, le diagnosticava un’ernia iatale non disponendo di contro idonei accertamenti cito-istologici, che – qualora eseguiti tempestivamente – avrebbero rilevato con sensibile anticipo la natura della patologia da cui la (omissis) era affetta (poi scoperta a seguito di accertamenti cimici a cui la stessa si era sottoposta di sua autonoma iniziativa) consentendole di ricorrere a protocolli terapeutici, p.es. resezione del pancreas, in grado di procurare la guarigione o di incrementare consistentemente le sue speranze di vita. Fatto commesso in (omissis)
La sentenza impugnata sostiene: 1. che la tempestività della corretta diagnosi non avrebbe influito sull’esito della patologia in quanto la stessa era ad esito infausto inevitabile; 2. che il capo di imputazione sarebbe logicamente viziato, perché formulato in termini di causazione diretta della morte, mentre nel caso di specie non si sarebbe in presenza di alcuna azione, ma semmai di una omissione, precisando, successivamente, che nella condotta dell’imputato, in realtà, è ravvisabile non un’omissione totale, ma una azione incompleta; 3. che la causa della morte sarebbe da individuare esclusivamente nella patologia della persona offesa e che una condotta alternativa dell’imputato non avrebbe potuto evitarla, venendo così a mancare un rapporto causale tra la condotta stessa e l’evento morte; 4. che le omissioni diagnostiche addebitate all’imputato possono avere evitato di rallentare l’avanzata del male, ma che si sarebbe trattato di un ritardo diagnostico di pochi mesi, giustificato alla obbiettiva ambiguità dei sintomi iniziali e, in ogni caso, non avrebbe evitato l’evento; 5. che lo stabilire se una diagnosi tempestiva avrebbe potuto ritardare o meno l’esito infausto si collocherebbe al di fuori della tipicità penale, non essendo contemplato in alcuna fattispecie penale l’evento che ne sarebbe l’effetto (il ritardo del decesso per cause naturali) non costituendo omicidio colposo, né integrando il reato di lesioni colpose; 6. che eventuali doglianze sulla verificazione ditali eventi avrebbero solo rilevanza civile, potendo trovare accoglimento soltanto in tale sede (trascurando, tuttavia, di considerare, aggiunge il ricorrente, che l’accertamento in sede penale dell’insussistenza del fatto fa stato in sede civile).
Viceversa, richiamato l’orientamento giurisprudenziale di questa Corte in relazione all’intempestiva diagnosi tumorale di cui alle sentenze 36603/2011 e n. 3380/2005, la parte ricorrente sottolinea che nel caso di specie se l’imputato avesse tempestivamente messo in atto tutti i protocolli diagnostici necessari e doverosi in presenza anche del solo sospetto di un tumore pancreatico, trattandosi di una massa tumorale di dimensioni inferiori ai 2 cm. e senza metastasi in alcuno degli organi controllati, sarebbe stato possibile effettuare la stadiazione del tumore e procedere alla resezione chirurgica del pancreas o di parte di esso, con indubbi benefici per la paziente, derivandone, quanto meno, un rallentamento dei decorso aggressivo della patologia con possibilità di sopravvivenza fino a cinque anni. Infatti, come emerso a dibattimento, il tumore, una volta individuato, viene classificato a mezzo stadiazione, ed in ben quattro dei diversi stadi della sua metamorfosi (stadio 0, stadio I, T1 e T2, stadio II), può procedersi ad intervento chirurgico, con possibilità, nel 35% dei casi, dì sopravvivenza nel lungo periodo”.
Il ritardo della diagnosi avrebbe concretamente determinato la perdita di chance terapeutiche, tenuto conto che si è passati da un tumore operabile senza metastasi ad uno inoperabile con metastasi diffuse.
La Suprema Corte stigmatizza duramente la Corte di appello di Bari [si è arrampicata sui vetri per assolvere il medico], secondo la quale non avere ritardato il decesso della paziente non costituisce un reato previsto dal codice penale, dovendo ribadire che l’errore diagnostico “si configura non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca ad inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga ad un inquadramento erroneo, ma anche quando si ometta di eseguire o disporre controlli ed accertamenti doverosi ai fini di una corretta formulazione della diagnosi” e pertanto che “in tema di nesso causale nei reati omissivi (…) non può escludersi la responsabilità del medico il quale colposamente non si attivi e contribuisca con il proprio errore diagnostico a che il paziente venga conoscenza di una malattia tumorale, anche a fronte di una prospettazione della morte ritenuta inevitabile, laddove, nel giudizio controfattuale, vi è alta probabilità logica che il ricorso ad altri rimedi terapeutici, o all’intervento chirurgico, avrebbe determinato un allungamento della vita, che è un bene giuridicamente rilevante anche se temporalmente non molto esteso”. Sentenza Franzese delle S.U.